Ravanare

Sciolta

Giulia Mondello

Penso che la domanda che ogni scalatore senta rivolgersi più spesso (da un “non-scalatore”, chiaro) sia: “Ma… A mani nude?”. E sono quasi altrettanto convinta che l’altra domanda che uno scalatore senta rivolgersi spesso possa essere: “Ma… Non hai paura?”. E così lo scalatore dovrebbe essere una sottospecie di nuovo mito – ancora più figo, perché non ha addosso orpelli – che sfida la gravità e senza paura si appende a minuscoli appigli con i piedi incartapecoriti in delle scarpette di due – tre? – numeri più piccoli e le mani nude.

Se è così, io non sono uno scalatore. Ok, non lo sono perché sono femmina: riformuliamo. Se le cose stanno così, allora io ammetto di essere ciò che di più lontano possa esistere da una scalatrice. Io mi cago addosso.

Mi cago addosso quando non sento Eva sulla corda per istanti che non so più se siano tre, cinque, sette minuti; mi cago addosso quando attrezzo una sosta e stacco la Daisy per vedere se mi tiene; mi cago addosso quando mi perdo e non trovo più la protezione successiva. Mi cago addosso quando mi accorgo di essermi portata su una peretta di meno e: “O cazzo, ma ora come faccio a metter su il reverso?”.

Ma cagarmi addosso su una via non mi basta, no no, io la stitichezza non la tollero nemmeno in falesia. Mi cago addosso quando mi prende qualcuno in sicura per la prima volta e mi cago addosso al pensiero di pesare troppo poco: come può fare l’assicuratore a sentirmi e a dinamizzare la mia caduta? Mi cago addosso prima di fare un movimento duro, mi cago addosso quando ho fatto tutto il duro ed ecco che all’improvviso devi salire una di quelle dannate rampette bruzzolose e appoggiate – hai presente? Quando la roccia cambia e ti costringe a un controllo che ormai vorresti abbandonare, perché hai salito uno strapiombo e hai il fiatone, perché senti il cuore in gola e ti sembra di sentire caldo dentro alle vene degli avambracci, irrorate di sangue. Vorrei abbandonarmi, perdere la concentrazione, salire quei metri come ho salito il resto del tiro: di getto e seguendo i naturali movimenti che lo strapiombo disegna per me, non pensarci, eppure devo rimanere lì, fare ancora uno sforzo per contenere la tensione che esplode dal mio corpo. Devo ancora essere delicata.

Mi cago addosso quando penso che potrei avercela fatta e mi cago addosso quando penso di non farcela. E mentre divento preda di me stessa, mentre mi sento soggiogata dalle mie stesse paure, mentre sento il mio corpo che trema e mentre mi sembra di non poter tollerare oltre la fatica, mentre mi sento quasi tradita da me stessa e dalle mie sensazioni, è proprio lì che non riesco più a fermarmi, che non posso più farne a meno. All’improvviso mi sento così beatamente sola, e il sentirmi sola in questo modo mi eccita terribilmente: non mi importa farmi violenza per andare avanti, non mi importa se la pelle delle mani fa male o se le dita dei piedi stanno scoppiando dentro alle scarpette. Mi sento terribilmente me stessa nel godere della mia irrimediabile fragilità, dei miei timori così scomposti: mi riconosco all’improvviso e mi sembra che non esista altro modo per stare al mondo – se non nel sentirmi così sola, così piccola, così nuda.

Allora mi fermo, rallento nella progressione, e mi guardo attorno. Guardo l’orizzonte: non vedi quelle case? Non vedi come sono piccole? Chissà, magari proprio lì, proprio lì in riva al lago c’è qualcuno che passeggia, magari sta portando il cane a pisciare. Chissà cosa pensa, chissà se mi vede: i nostri occhi sono gli stessi occhi, i miei occhi sono gli stessi di quelli del suo cane. E’ strano come il sentirmi la sola e minuscola preda di me stessa mi permetta di sentirmi così vicina al mondo. All’improvviso non sento più confini, non sento più distanze, non sento più limiti.

sciolta

L’odore del mio sudore mi permea le narici, sento la magnesite in bocca e la gola asciutta, sento le gambe che piano piano smettono di tremare.

E’ possibile sentirci vivi, se non godendo di questo nostro essere irrimediabilmente imperfetti?

 

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