Mi metto davanti a questa pagina bianca senza sapere dove mi porteranno queste parole. Ecco perché scrivere è un atto di fede, e spesso – ultimamente troppo spesso – non sono capace di farlo.
Quando la mia vita va alla deriva – e per me non è qualcosa da temere, piuttosto cui aspirare – le parole sono l’unica sicurezza che mi aggrappa alla realtà. Un’ancora che raschia il fondo e porta tutto in superficie.
Mi fa paura scrivere qui, lo ammetto. Mi fa più paura di inviare all’editore un pezzo senza averlo riletto. Eppure è il mio spazio. Ma che paura prendersi questo spazio.
Sono cambiate tante cose nella mia vita da quando sono tornata dalla Patagonia, e lo hanno fatto perché l’ho voluto, non perché è successo. Beh, alcune cose sono successe e basta, e non ho potuto fare nulla per evitarle. Non ho voluto far nulla.
Sono tornata e presto, fra cambiamenti e un inverno folle dove è contato solo l’eterno adesso, l’energia che avevo portato dall’altro capo del mondo è evaporata nell’aria. Così come i miei risparmi.
Così ho preso la difficile decisione, dopo tantissimi anni, dopo essermi ripromessa di non farlo mai più, di fare un lavoro che non è la mia passione. Di farlo, semplicemente per il denaro.
Non mi ha fatto paura rimboccarmi le maniche e darmi da fare, ma il pensiero che questo potesse gridare al mondo intero Guarda, Eva non ce l’ha fatta. Non si può vivere di sola passione.
Ho combattuto la noia, l’apatia, la depressione. Mi sono costretta ad arrivare al succo, a guardarmi, spogliata di tutto quello che pensavo che definisse chi ero.
Tolto tutto quello che faccio, cosa resta infondo?
Tolta la scrittura, la montagna, la spensieratezza della sera, cos’è che resta?
Conosco un solo modo per rispondere a queste domande: la fatica.
Per questo dopo tre mesi di solo lavoro invece di stendermi a prendere il sole sono andata fuori, in mezzo ai pinnacoli di granito che hanno saputo darmi la direzione una volta, e che, sono certa, possono farlo anche adesso.
Correre il percorso del Kima in autonomia è stato un sogno che ho sempre avuto e a cui quest’estate mi sono aggrappata per restare a galla. Volevo fosse un’espediente per rimanere allenata, ma non è bastato. Così mi sono ritrovata nell’oscurità delle ultime ore della notte, con la frontale in testa, a partire sapendo di poter fare affidamento solo su due delle mie capacità: mettere un piede davanti l’altro (ma tutti ne siamo capaci, no?) E, soprattutto, soffrire.
È così che mi piace arrivare all’osso.
Mentre salgo incontro al giorno l’acqua delle piogge dei giorni passati fa vibrare l’aria, la terra e la roccia con la sua urgenza di andare verso dove non smetterà mai di andare; io, mi faccio spazio ansimando in direzione contraria. Poi arrivo in alto, tutto si svela e diventa naturale; aggrapparsi alle catene fredde, bere, mangiare, saltare da un sasso all’altro, parlare al vento. Al bivacco Kima incontro un ragazzo. Mi dice che era lì con il brutto tempo da due giorni e che sono la prima persona che vede. É partito a piedi da Torino. Gli chiedo se ha del caffè, mi dice Solo quello che è nella tazza, condividiamolo. Gliene rubo un po’ lo ringrazio e corro via.
Quando salgo verso il passo, il secondo di giornata, il sole inizia a farsi più alto delle torri immobili e arriva a sfiorarmi la pelle, invitandomi a tirarmi via i pantaloni lunghi con cui sono partita di notte. L’aria è fredda al Cameraccio. Quando arrivo su mi rendo conto di non esserci mai stata. Mi siedo vicino a uno dei tanti omini di sassi e respiro a fondo un’aria strana; che non sa di solitudine.
In val Torrone mi fischiano le marmotte. Le nuvole salgono e danzano. Anche io salgo, trascinandomi. Quando arrivo al passo mi rendo conto di essere entrata in un loop nel quale mi ricarico ogni volta che una valle si svela ai miei occhi e man mano che la percorro perdo energia e positività. Mi svuoto e quando arrivo sotto all’ultima rampa che devo salire non ho più niente, se non imprecazioni.
All’Allievi mi siedo e mangio il panino che mi sono fatta la sera prima. Riparto sapendo che adesso arriverà il pezzo più duro; perché lo conosco, perché è lungo e perché so che Lupo mi aspetta in Gianetti e odio doverlo fare aspettare. So che potrei entrare nel dark hole da un momento all’altro e allora anticipo i miei stati d’animo mettendo un po’ di musica, cantando, pensando a cazzate. Al Camerozzo mi riesce difficile. E quando sbuco dal passo e vedo dove sta la Gianetti, per la prima volta della giornata, vedo quello che mi aspetta e tutto mi sembra troppo lontano. La mia testa inizia a vacillare; doveva succedere prima o poi, sarebbe stato strano il contrario.
Il terreno sembra essere attaccato ai miei piedi come asfalto fresco. Mi sembra di non andare avanti, di essere ferma nel tempo e nello spazio. Non importa a che velocità, ma se metti un piede davanti l’altro, stai andando avanti. E prima o poi arrivi.
Arrivo alla Gianetti e c’è Lupo che mi aspetta con il binocolo al collo. Mi chiede se voglio continuare, e mentre bevo una panachè e mangio un pacchetto di patatine fritte dico Si, che a questo punto non importa quanto ci metterò ma voglio andare in fondo. Gli chiedo scherzando se vuole venire con me invece di scendere dal sentiero della val Porcellizzo, ma non mi sembra convinto. Ha le ginocchia marce, ha paura di strafare. Mentre pago però chiede al rifugista quanto si allunga effettivamente facendo il passo del Barbacan e basta un vago Un’oretta che mi stupisce dicendomi Vengo con te. Probabilmente sa che da sola, a questo punto, sarebbe troppo doloroso arrivare in fondo.
Parliamo, cazzeggiamo, saliamo il passo e mentre iniziamo a scendere arriva il buio, e tutto lo sconforto ad esso collegato. È dura con un amico al mio fianco; da sola sarebbe stato un inferno.
All’Omio vediamo gli occhi di un animale e decidiamo che è un lupo. Per noi sarà sempre un lupo.
Iniziamo la discesa infinita nel bosco e soffriamo entrambi in silenzio, ognuno lottando con i propri mostri. Io con il sonno, lui con il dolore alle ginocchia.
Ogni tornante è uguale a quello prima e mi sembra di scendere in una spirale che non finisce mai.
Contro ogni previsione, inizia anche a piovere.
Non mi importa più di niente, di bagnarmi, del tempo che ci sto mettendo, di mangiare, di bere. Voglio solo che finisca.
E non perché io l’ho desiderato ma semplicemente perché tutte le cose prima o poi finiscono. Arriviamo all’auto. Ci abbracciamo, Lupo mi dice Brava ma io penso che non avrei fatto nulla senza di lui. Beviamo una birra. Penso che forse il brava me lo prendo non per quello che ho fatto da sola, ma per essere capace a chiedere aiuto e riceverlo.
Per avere creduto e investito in un’amicizia che ci ha portato entrambi qua, sporchi di fango e stanchi per una cosa che non aveva senso e se lo aveva lo aveva solo per me e che non ho mai dovuto spiegarlo.
Esco dal mio purgatorio e non sono sola.
Ho fatto quello che volevo, quello di cui avevo bisogno.
Ho sofferto ed ho tolto tutto e quello che resta, in fondo, è la parte migliore.