Mi chiedo se andiamo in certi posti, se ci cacciamo in certe situazioni, per stimolare pensieri che altrimenti non avremmo.
Se così fosse, andare in montagna equivarrebbe a masturbarsi il cervello. Raramente con pensieri eccitanti.
Lassù, si fanno pensieri che non si osano dire ad alta voce. Con il tuo compagno vivi l’esperienza. Ma il pensiero resta tuo, soltanto tuo.
Sta a te decidere se condividere con chi era con te, con il resto del mondo, quello che è successo nella tua mente. É una scelta che puoi fare solo quando hai i piedi per terra, quando tutto è finito e, comunque sia andata, sei a casa – qualunque sia per te casa – e puoi respirare, puoi pensare anche ad altro.
E quindi, eccomi qui a scrivere non tanto di quando, qualche giorno fa, ho scalato lo Spigolo Nord del Pizzo Badile, ma di quando l’ho pensato.
L’ho pensato nel caldo afoso di Roma, quando Bani mi ha proposto di andare. L’ho pensato nel sedile del treno e l’ho pensato sul sentiero per arrivare al Sasc Fura. L’ho pensato quando l’ho visto illuminarsi con il primo sole del giorno, l’ho pensato ogni istante di tutte le ore che lo abbiamo cavalcato.
Ai piedi della parete ovest mentre rifacevo la corda sulle spalle l’ho sentito pian piano uscire dai miei pensieri e diventare parola condivisa con i miei amici sul sentiero infinito fino ai bagni. Eppure, mentre mi allontanavo, da lui e da me stessa, anche se non lo vedevo e non lo pensavo, riuscivo a sentire la sua gigantesca presenza dietro alle spalle. Non più nella testa ma da qualche parte qui dentro.
Penso a mettere bene i piedi e assicurarmi che le mani stringano sassi solidi, o quanto meno incastrati mentre saliamo slegati fino all’attacco, o forse, fino alla sosta del quarto, quinto tiro.
Penso a come è bella la parete nord e che torneremo presto a scalare la Cassin.
Penso a come è facile e divertente scalare questa roccia (e si, lì la mia mente gode).
Penso a bere e mangiare regolarmente, che questa volta non ho voglia di sentirmi male.
Penso che la giornata è ancora lunga e siamo a buon punto.
Penso che ora è? Quanto manca ancora?
Penso a quel poco di roccia che riesco a vedere davanti a noi. Le nuvole intorno sono i nostri paraocchi. Scaliamo come cavalli.
Penso che non riusciremo a scendere con la luce. Penso che saremo costretti a bivaccare.
Penso che dobbiamo sbrigarci, se vogliamo arrivare al bivacco senza accendere le frontali.
Penso a scalare il più veloce che posso, arrivare in sosta, fare sicura, arrampicare fino a farmi venire il fiatone, come in trance, insieme a Bani. E non riusciamo a pensare più a niente, se non a scalare il più veloce che possiamo e continuare a guadagnare metri di roccia.
Esce il sole rosso dalle nuvole per qualche istante, e penso che è una magra consolazione, perché sta per tramontare.
Penso a seguire, testa bassa verso le mie scarpe da avvicinamento e sperare che chi sta davanti abbia dei pensieri migliori dei miei.
Penso che farà freddo se dovessimo bivaccare in qualche cengia e che ho già addosso tutti gli strati che mi sono portata.
Vorrei essere sul divano di casa a guardare Netflix.
Penso che Bani deve mangiare e deve bere. Gli prendo un gel dalla tasca dello zaino e lo costringo a ingurgitarlo.
Penso che non tornerò mai più su questa montagna. Che la odio.
Penso, spero che dietro a questo angolo di cresta si intraveda la vetta.
Penso a mettermi la frontale in testa e come un segnale se ne accendono due a pochi metri da noi.
Penso che “venite qui, vi portiamo noi al bivacco” siano le parole più dolci che abbia mai sentito pronunciare da due estranei.
Penso che di quel cono di metallo non me ne frega niente, e non me ne è mai fregato, ma che comunque è meglio di una croce di metallo.
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Penso che questo panino va giù come pietra ma che non mangiarlo sarebbe peggio.
Penso che non riuscirò mai a dormire sotto a quest’asse di legno che mi pare una bara. Spegno la frontale e provo a non pensarci. Chiudo gli occhi e finalmente non penso più. Non sogno nemmeno. Solo buio e vuoto fino a che il mondo intorno non inizia a svegliarsi.
Esco dal bivacco giallo e penso che questa è la valle più bella del mondo e che ieri notte non mi ero accorta che oltre quel pezzettino di cengia c’era l’abisso.
Per un attimo, ma per un attimo solo, penso che non vorrei essere in nessun altro posto del mondo.
Penso che non è finita, finché non mettiamo i piedi per terra non è finita.
E poi, una volta che ho messo i piedi a terra, quando tutti sono giù sugli scivoli di granito che normalmente, in questa stagione, sono coperti di neve, smetto di pensare e inizio a sentire.
Ogni passo che faccio verso valle la mente si comprime e il corpo che ho maltrattato inizia a svegliarsi, a incazzarsi anche.
Penso che più veloce scendo, anche se le gambe fanno male, prima arrivo.
Penso che camminare sia la cosa più noiosa del mondo, ma che se la batte con il guidare fino a Bondo per riprendere la macchina e tornare a casa.
Penso che poteva andare meglio, ma anche che poteva andare decisamente peggio.
Penso, e ne sono anche preoccupata, che questa volta non mi scorderò del dolore come nel parto (che poi, mi chiedo se sia vero) e che presto mi verrà voglia di tornare lassù.
Fra nuvole e pensiero.