Ravanare

Il corso di alpinismo. Modulo I. L’approccio.

Eva Toschi

Perché quando ripensiamo a dei momenti vissuti nel passato ricordiamo vividamente alcuni attimi e altri non ci restano in testa? Perché succede così anche se eravamo presenti costantemente sempre, bene o male allo stesso modo?

Queste sono le domande che mi pongo quando scrivo di qualcosa che è successo tempo fa, che non è più fresco, qualcosa che hai avuto modo di elaborare nel tuo cervello a piacimento fino a ricordarti quello che ti fa più comodo, fino a interiorizzare cosa ti è successo, oppure fino quasi a modificare la realtà.

Generalmente mi piace scrivere basandomi sulle sensazioni del momento, evitando il ricordo, ma questa volta non posso farne a meno perché voglio parlare di qualcosa che è successo un po’ di tempo fa ma che, a dirla tutta, ho proprio tanta voglia di ricordare. Ma da dove iniziare?

È passato solo un giorno da quando sono tornata al campeggio dopo una via, la prima dell’estate e in verità la prima della vita. Ho da poco passato una delle giornate più lunghe e faticose mai avute, ho trascorso un giorno dormendo, mangiando lavandomi e sparando cazzate sul prato e ora mi ritrovo ancora con le gambe marce d’acido lattico a camminare verso il Refuge du Promontorie. Cammino, corro, scalo, tutto con questi scarponi rigidi che non avevo mai indossato prima d’ora. È cosi strano fidarsi di quella punta, abituata alle scarpette, e mi stupisco di come riesco a spalmare o spingere su piccoli appoggi. Lo zaino è leggero, sono stata graziata. Passiamo una morena e arriviamo finalmente al ghiacciaio.

Non avevo mai visto la neve in estate!

Tutto è nuovo e familiare allo stesso tempo. Mi viene spiegato come mettere i ramponi (semiautomatici, ora lo so!!) e come si tiene una piccozza e si usa in caso che qualcuno cada. È la prima volta in vita mia che tocco questi attrezzi affittati e cerco di farci amicizia. Pestar neve in realtà scopro essere bello e facile, devo solo star attenta a non farmi andare la corda in mezzo ai piedi o a non strusciarmi l’interno polpaccio e strappare i pantaloni.

Sono giorni che Bert se la sghignazza parlando di sto cazzo di salto della terminale, immaginandomi all’opera.. e ora capisco perché.

Con l’agilità di un bove sono di là a grattare i ramponi su roccia marcia. Ok ho appena scoperto la cosa più antipatica di sempre… mi muovo su sassi mobili con la piccozza in mano e i ramponi che stramazzano nella totale incertezza che il sasso su cui salgo si stacchi e ci porti giù. Ma dentro di me alla fine c’è una strana sicurezza del fatto che se mi trovo qui è perché posso. Non si tratta di parole dette da qualcuno o dal mio superego.. mi sento solo nel momento giusto nel posto giusto, per quanto mi trovi fuori dalla mia zona di comfort.

Dopo aver svalicato la Brèche de la Meije disarrampichiamo (ecco un’altra bella cosa che mi fa sbroccare) fino ad arrivare alla neve che ormai si è ritirata e corriamo fino al rifugio.

Levo con grande gioia gli scarponi e mi infilo due belle ciabatte di gomma, rigorosamente di numeri diversi.

È tardi, dovevamo arrivare molto prima e la cena è stata già servita… i ragazzi ci versano lo stesso una specie di punch con rum e coriandolo e ci portano la cena: zuppa per antipasto e piatto unico con riso, carne e altre cose. Strane cose. Formaggi e dolce. Caffè o thè per la colazione?

Il bagno è una latrina buia con – mi pare di aver letto –un sistema che funziona a disidratazione: in pratica vuol dire che devi spegnere la frontale quando entri, tapparti il naso e sperare che tu sia abbastanza mal-idratato da non dover pisciare per più di trenta secondi.

Sotto al piumone sul letto a castello sto già con l’ansia di non poter andare in bagno stanotte. Cerco di non pensarci, di non sentire i piccoli rumori che fanno queste persone che non ho nemmeno visto, nella camerata già buia.

E quindi, a quanto pare, sono queste le cose che ricordo.

 

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